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La coppa diadreta

Licurgo (coppa)

Trivulzio

Avevo scelto come lettura per il primo periodo di gran caldo, sperando ovviamente che non si prolungasse per più di un mese e mezzo come invece è accaduto, un libro che avevo considerato non troppo impegnativo. Si intitolava “Il calice proibito” di Dario Galimberti e veniva presentato come un grande thriller storico.
L’avevo scaricato su Kindle, che mi aiuta con la sua luce interna e la possibilità di ingrandire i caratteri di stampa a leggere meglio. Si trattava di una trama archeologica (ritrovamento in Svizzera dei ruderi di una villa romana) poi diventata avventurosa, pagina dopo pagina tinta anche di una pennellata di giallo che non nuoce perché mantiene la suspense.

Ma a riprova della mia convinzione che da ogni libro si può apprendere qualcosa di nuovo anche se antico ecco la sorpresa: mi sono imbattuta nella lotta tra due colossi, uno buono uno cattivo, ovviamente, così come ovviamente alla fine vince il colosso buono, per impadronirsi di un tesoro nascosto…. Non so se avete presente ….

Il libro parla anche di nanotecnologia ovvero di un ramo della scienza applicata e della tecnologia che si occupa del controllo della materia su scala dimensionale inferiore al nanometro, ovvero un miliardesimo di metro (in genere tra 1 e 100 nanometri) e della progettazione e realizzazione di dispositivi in tale scala.
Il termine “nanotecnologia” indica genericamente la manipolazione della materia a livello atomico e molecolare e, in particolare, si riferisce a lunghezze dell’ordine di pochi passi reticolari.[1] (Wikipedia)

In questo caso il tesoro nascosto era una coppa romana del III / IV secolo che ha delle caratteristiche particolari e di cui da cattiva romana (?) non sapevo assolutamente nulla. Sono per natura curiosa di tutto quello che non conosco e non potevo non approfondire l’argomento.

Si tratta di opere di un pregio e di un valore altissimo, lavori di artigianato unici al mondo che sono stati elaborati dalla metà del III alla metà del IV secolo d.C.. Interi diciamo sono stati ritrovati pochi esemplari (due ne riporto in foto) in genere reperiti in scavi di tombe patrizie o nei tesori delle chiese. Voglio dire che non erano oggetti di uso comune popolare.

Il lavoro veniva eseguito in quattro officine specializzate; Il vetro veniva dalla Palestina o dall’Egitto: la sgrossatura del vetro veniva eseguita in una seconda officina, specializzata, l’intaglio in un terzo laboratorio da artigiani esperti. Tutto il lavoro portava alla creazione di un oggetto raro e molto costoso.

E’ comunemente accettato che il procedimento fosse il seguente: taglio e molatura di un pezzo di vetro, giusto alla bisogna, spesso e pieno; successivamente, con un procedimento noto solo ai Greci e ai Romani, proveniente dalla loro esperienza nell’incisione su pietra o sulle gemme semipreziose, l’oggetto veniva lavorato in modo che all’interno si creasse la concavità di un vaso o di una coppa e all’esterno risultasse come una specie di gabbia o guscio decorativo, intagliata con cautela e precisione a formare un raffinatissimo reticolo che avvolgeva la coppa. In genere la lavorazione era a reticolo o a disegno geometrico.

Ci è rimasto un unico vaso, la coppa di Licurgo, esposta al British Museum, che riporta incise varie figure, Licurgo appunto, Bacco, Arianna, un satiro ecc.. E’ stata realizzata a Roma o ad Alessandria d’Egitto tra il 290 e il 324 d.c. e misura 16,5 x 13,2 cm. e non c’è necessità di dire che veramente è splendida.

Sono stati poi ritrovati vari reperti appartenenti a coppe di questo tipo e un altro, la coppa Trivulziana ( sempre IV secolo) conservata al Museo Archeologico di Milano che riporta anche la scritta “Bibe vivas multis annis” (bevi, che tu viva molti anni).

Ma la coppa diatreta ha anche un’altra caratteristica. A seconda di come riflette la luce cambia colore. Se la luce la colpisce posteriormente il colore è verde, se anteriormente è rosso, se dall’alto a volte azzurro, offrendo allo spettatore un meraviglioso effetto di colore cangiante. Si crede che questo risultato sia stato ottenuto, in modo forse neanche voluto all’atto dell’impasto della massa vetrosa che avrebbe incamerato, dal piano di lavorazione, inavvertitamente minuscole nanoparticelle di oro e di argento.

Sembra ma non si sa con esattezza che ai Romani dobbiamo anche i primi vetri alle finestre nelle case dei patrizi.

La parola diatreta deriva dal greco diatrao, e al latino diadretum, e si riferisce alla particolare tecnica di lavorazione di cui abbiamo già parlato.

Grazie